La contabilizzazione del calore consumato da ogni unità immobiliare è ormai entrata nella cultura e nelle abitudini comuni.
Prevista ope legis da tempo, negli interventi di nuova edificazione, ed a colpi di decretazione regionale (con tanti avanti-indietro, proroghe, deroghe, sanzioni e chi più ne ha, ne metta) presto o tardi coinvolgerà tutti gli edifici.
È cosa senz’altro positiva, perché, associata alla possibilità di regolazione, contribuisce in maniera radicale alla responsabilizzazione e sensibilizzazione di tutti verso un bene comune, facendo leva sull’interesse economico del singolo. Non sempre sortisce gli effetti taumaturgici che le si attribuiscono, ma sicuramente evidenti, sì.
Come sempre insieme alle cose positive sono da considerare alcuni aspetti che, se non negativi, devono essere oggetto di attenta valutazione, specialmente quando la contabilizzazione viene effettuata su impianti “old-style” installati in edifici con isolamento termico ridotto o quasi nullo (cosa che avviene nella grande maggioranza degli edifici precedenti il 1976, anno della legge 373, antesignana della più celebre legge 10/1991).
In questi casi infatti, è prevedibile l’insorgere di contenziosi che possono derivare da problematiche non affrontate.
Ripartizione dei costi
Negli stabili condominiali in cui fino ad oggi la ripartizione dei costi di riscaldamento (sia per il combustibile sia per la manutenzione) è stata effettuata con l’ovvio criterio dei millesimi, si pone in problema di quanto debbano pagare i condomini con l’appartamento ai piani estremi (il più alto ed il più basso). Nelle nostre considerazioni tralasciamo pure le pur rilevanti incertezze della misurazione ed immagiamo che sia perfetta.
Gli appartamenti dell’ultimo piano, che sopra hanno aria esterna fredda, oppure un sottotetto non riscaldato, hanno superficie disperdenti costituite dalle pareti esterne e dal soffitto.
Quelli del piano terreno hanno superficie disperdenti costituite dalle pareti esterne e dal pavimento.
Gli altri piani hanno superfici disperdenti costituite dalle sole pareti esterne.
È ovvia la considerazione che in un ipotetico palazzo a pianta quadrata di 5 metri di lato gli appartamenti intermedi hanno superficie disperdente di 20×2.7=54 m2; l’appartamento più in alto, a quella superficie deve aggiungere 25 m2, come il piano terreno. A loro volta i due appartamenti estremi hanno diverso scambio termico con il resto del mondo: quello in alto, con aria esterna a temperatura invernale (a Milano, per esempio, -5 °C); quello al piano terra, con il terreno a 10÷15 °C.
La potenza scambiata con l’esterno è direttamente proporzionale alla superficie ed al salto termico fra interno ed esterno dell’abitazione: è quindi ovvio che gli appartamenti all’estremo siano sfavoriti e l’energia misurata dai loro contabilizzatori sia in parte al servizio dell’appartamento, come tutti, ed in parte al servizio del condominio.
Quanto si muta il regolamento condominiale in funzione dell’introduzione della contabilizzazione, occorre quindi prevedere un meccanismo che riconosca giusta ragione di ciò.
Sono in uso “comode” forfettizzazioni che indicano come ripartire i consumi degli ultimi piani. Tipicamente si utilizzano valori compresi fra 20 e 30 % del consumo totale come “condominiale” ed il resto come “pro capite”.
Queste forfettizzazioni sono fatte sulla base di un apparente buon senso, basato su assunti non necessariamente veri, come quello del piccolo esempio numerico di prima.
La tipologia di pareti, serramenti, solai e pavimenti, può cambiare radicalmente le prospettive, in bene o in male, causando storture applicative.
È invece opportuno che la quantificazione della quota “condominiale” sia calcolata attraverso un calcolo rigoroso, orami alla portata di tutti, dal quale si evinca, in funzione dei gradi giorno rilevati attualmente, quale è la quantità di calore che esce attraverso i tetti ed i solai e detrarre quella quota dai consumi degli appartamenti all’ultimo ed al primo piano.
Il meccanismo è pure relativamente semplice, ma assai più robusto del “lume di naso”, permettendo tra l’altro di tener conto delle differenze di temperatura fra un anno e l’altro.
Temperatura d’esercizio
Un problema simile e per certi versi più insidioso è l’apparente libertà di regolazione che i condòmini hanno. Installare regolazione e contabilizzazione autonoma consentono di regolare al meglio la temperatura degli appartamenti. Ma il condòmino è libero di tenere, per esempio, 10°C? Oppure, se l’appartamento è sfitto, può spegnere tour-court il riscaldamento?
La risposta è negativa per una serie di ragioni.
La prima è di rapporto con i vicini. Si dà, infatti, per sottinteso che tutti gli appartamenti siano eserciti a temperatura normale e che, di conseguenza, non ci sia scambio termico fra due appartamenti posti a piani diversi. Temperatura normale con la quale sono stati eserciti fino ad oggi sotto la regolazione condominiale.
Se, come esempio limite, un appartamento venisse tenuto a 0 °C, quello soprastante richiederà molta più energia (contabilizzata e pagata dal singolo) del normale, come se fosse l’appartamento dell’ultimo piano. Questo è un punto estremamente importante in assoluto, ma anche perché rischia di far nascere, aumentare ed esacerbare i rapporti di buon vicinato, tradizionalmente già tesi in un condominio.
C’è un’altra considerazione, tuttavia, da fare: gli edifici un po’ anziani –in particolare le loro pareti esterne- nacquero in un’epoca, prima della crisi energetica del 1973, in cui l’energia costava poco e quindi sono poco coibentati. Il sistema termodinamico vive quindi di uno strano equilibrio per il quale l’elevata quantità di calore che esce verso l’esterno tiene calde le pareti. Questo è un non voluto e costoso, ma efficiente, modo di evitare la formazione delle condense sui muri.
È evidente che tenere inutilmente alte le temperature per salvare dalla condensa è per certi versi assurdo. Ma si deve anche tenere in considerazione che un appartamento chiuso e freddo per lunghi periodi darà luogo a deterioramento esterno ed interno delle muratura, con conseguente danno per l’edificio, specialmente per gli appartamenti confinanti, che vedranno gli spigoli dei loro muri inusitatamente freddi e, quindi, con pericolo di condensa e danneggiamento.
Cosa fare, allora?
Nelle stesse more dell’adozione della contabilizzazione e regolazione per appartamento, occorre inserire una clausola obbligatoria in base alla quale gli appartamenti non possono essere eserciti a temperature inferiori ad un certo limite (p.es. 15 °C, come suggerito dalla norma UNI 10200:2013). Limiti che contemperino il diritto/dovere del risparmio d’energia di un singolo condomino, ma anche quelli degli altri condomini che non devono pagare più del dovuto e di tutto il condominio del quale si deve preservare correttamente la proprietà.
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Si faccia comunque opportuno riferimento alla norma UNI 10200:2013 “Impianti termici centralizzati di climatizzazione invernale e produzione di acqua calda sanitaria Criteri di ripartizione delle spese di climatizzazione invernale ed acqua calda sanitaria”
DPR 74/201 “Art. 3. Valori massimi della temperatura ambiente 1. Durante il funzionamento dell’impianto di climatizzazione invernale, la media ponderata delle temperature dell’aria, misurate nei singoli ambienti riscaldati di ciascuna unità immobiliare, non deve superare: a) 18°C + 2°C di tolleranza per gli edifici adibiti ad attività industriali, artigianali e assimilabili; b) 20°C + 2°C di tolleranza per tutti gli altri edifici.”
Se il salto termico è nullo, la potenza scambiata è pure nulla.